giovedì, giugno 23, 2011

MentreL'OstricaSputavaSuiTarli







Ognuno ha il suo tempo.
Ognuno è il suo tempo.
Osservo una giovane madre cullare la figlia.
Sedute di fronte a me dentro questo battello torrido.
Aridità d'aria. Puzza di sudori.
Se la tiene in braccio cercando la posizione più confortevole per farla riposare incurante del fatto che i capelli rossi della bambina siano impietosamente appiccicati sulla pelle del suo decolletè.
Cerca di farle aria muovendo la tesa del cappellino che regge in mano consapevole che comunque non ci sarà alcun refrigerio.
Io so che quella donna farebbe di tutto pur di far stare bene la sua bambina.
La sua cosa preziosa. Il suo bene assoluto.
Non c'è afa che tenga.
Vorrei fermare quel momento in uno scatto ma non posso: sono in una posizione troppo esposta. E non posso rubare la scena. Dovrei alzarmi e chiedere loro il permesso di fotografarle rovinando quel capolavoro.
Ed ecco che mi viene in mente la Pietà del Michelangelo.
Di più.
Mi viene in mente mia figlia ed i suoi capelli rossi.
Ancora.
Mi vengono in mente i miei trent'anni e tutto il resto: che nessuno tocchi i cuccioli della tigre.
N-o-n  a-v-v-i-c-i-n-a-r-s-i.
Ognuno ha il suo tempo.
Ognuno è il suo tempo.
Sta arrivando un temporale. Forse cambierà l'aria. Sono ancora arrabbiata. Non so nemmeno perchè sto qua. L'appuntamento è alle diciotto e trenta: come sempre sono in anticipo e lui arriverà in bicicletta e sarà pure in anticipo di un po'.
In finale ci assomigliamo su questo.
Così io farò finta di niente.
Farò finta di scordare che stamane, quando l'ho svegliato, mi ha mandata a cagare perchè ho cominciato a parlare di cose serie e di prima mattina – di cose serie – a vent'anni non si può parlare.
Di più. Ancora.
Farò finta di dimenticarmi che ieri lei m'ha detto che ha un poco di timore a trovare una casa vicino alla mia, nell'isola.
“Cioè, ha detto, tutti e tre vicini non è un po' troppo?”
Sdeng.
Come se fossi una madre assillante. Una madre che soffoca. Una rompicoglioni.
Lei che a quindici anni era a Trafalgar Square a festeggiare il capodanno da sola.
Ognuno ha il suo tempo.
Ognuno è il suo tempo.
Che volete che vi dica? Che posso sentire sulla mia pelle i capelli appiccicati di quella bambina? Che sento ancora l'odore acre del cuoio cappelluto che avevate da bambini quando eravate tutti sudati?
Era un attimo fa. Era ieri.
E voi che sapete sempre tutto, questo non lo avevate previsto?

giovedì, giugno 16, 2011

LeLuci&LeRane







Ho fame. Mangio ogni due ore. O meglio mangerei ogni due ore ma mi trattengo. In questa notte che qui da casa mia è uguale a tante altre notti, qualcuno mi scrive che è una notte molto buia. Niente luna. Buia e con le luci lontane. Sembra la notte dell'amore, qualcuno mi scrive.
Ma io so che non è così: so che la luna c'è, è solo che non si vede.
Io non vedo le luci della francia e non sento le rane.
Le rane al buio sentono la luna e così io immagino le luci della francia.
Immagino. Osservo. Immagino.
Quando penso, osservo.
Quando cammino, osservo.
È così che li ho visti.
Stavano sul ponte e si parlavano, un po' gesticolando.
Ho ripreso con gli occhi gli ultimi istanti del loro conversare. Non lo so da quanto erano là, né posso sapere se era stato un incontro occasionale. Però si conoscevano. Lui ha scritto qualcosa su un piccolo foglio. Poi l'ha spezzato in due. Uno l'ha passato a lei che lo ha messo in borsa, l'altro se l'è infilato nella tasca dei pantaloni. Sorridevano.
Poi si sono salutati, timidamente e senza guardarsi. O meglio, erano talmente imbrazzati che i loro sguardi scivolavano a terra non appena gli
occhi s'incrociavano.
È proprio questo che mi ha costretta a fermarmi. Ai piedi del ponte, mentre stavo percorrendo la strada che ogni giorno faccio per recarmi al lavoro.
Si sono salutati e lei gli ha voltato le spalle ed ha cominciato a fare gli scalini del ponte in discesa, appena un poco distante da me.
Aveva un'espressione di esplosiva felicità e la mano davanti alla bocca per tenersi una risata di dentro.
Gli occhi brillanti come due pietre preziose.
Immediatamente mi sono concentrata su di lui.
In alto, sul ponte, s'era voltato per scendere dalla parte opposta ma, fatti due passi, s'è bruscamente fermato, ed un istante dopo s'è tirato fuori dalla tasca dietro dei jeans il pezzo di carta e l'ha guardato.
E aveva l'altra mano sulla testa a grattarsi i capelli e sulla bocca quel sorriso, e gli occhi che luccicavano.
È rimasto fermo, immobile, là in alto sul ponte davanti al supermercato. Ed io lo guardavo, timorosa che mi vedesse.
Mi sembrava di rubare qualcosa di prezioso. Mi si è bloccato il respiro.
Mi sono dimenticata di respirare quando, guardando lei che ora aveva fatto qualche passo oltre il ponte, mi son accorta che anche s'era fermata, e leggeva il foglietto che teneva in mano.
E con le dita dell'altra mano si rigirava ciocche di capelli.
La strada era piena di gente. Turisti e lavoratori. Bambini con le patatine del mcdonald ed extra comunitari che vendono le loro borse finte.
Ma a me è sembrato che tutta quella gente in movimento all'improvviso si bloccasse e che l'unica cosa a creare energia in quella grande e larga via fossero quei due giovani.
Ehi giratevi!, avrei voluto gridare loro. Vi siete innamorati! Io lo so!
Lo so, ne sono certa. Lo so come so che questa sera c'è una palla di luna anche se non si vede. Me la sento nella pancia che pulsa come la via vena aorta.
Blop. Blop. Blop.
Cra. Cra. Cra. Le rane si parlano nel buio della notte. Parlano in italiano e alcune parlano anche il francese, e poi le luci della francia son sempre accese nella notte. La notte dell'amore.
Chissà chi dei due ha telefonato prima.
Chissà se si son ritrovati.
Chissà se l'odore del primo bacio è stato loro familiare.
Chissà se mi passerà questa fame.
Di te.
Fuori, più lontano, una palla rossa nel cielo nero.

domenica, giugno 05, 2011

DellaSciagurataCattiveria





















Che poi era meglio se ti lasciavo lì, dipinta d'inchiostro blu scuro, su quella foto in bianco e nero. Magistrali, classe terza. O quarta. La foto della classe. Non che mi ricordi un granché di quegli anni, però.
Nemmeno che penna avevo usato per nasconderti ricordo. Forse la mia vecchia stilografica Pelikan.
L'inchiostro col tempo si è tutto crepato, sopra la tua silhouette. Proprio come la pelle del tuo viso. eh. Il tempo passa, inclemente. Nonostante il botox. Uheuheuheuheuhe.
Era quella risata. Una risata sguaiata. Era quel tuo stare scomposta. Noi tutte in posa, da brave future maestrine. Tu quasi accucciata col capo un poco reclinato all'indietro, a ridere.
Ti ho oscurata perché quella posizione mi urtava i nervi.
Oltre al fatto dell'aver appreso che eri stata col mio fidanzato di allora. Che prima di me stava appunto con te, ma poi ha scelto me. E di nuovo con te. Avevo la varicella, io. Presa da mio fratello. Io, a diciotto anni con la varicella, e tu con lui.
È ovvio che me la sono presa con te, come da manuale. A lui poi l'ho perdonato. Faceva il marinaio, ed era balbuziente. Anche era buono.
Che poi più avanti mi capiterà la medesima cosa. Dell'amica che va col tuo uomo. Ma a lei non la perdonerò e comunque sarà diverso. È la storia che si ripete.
Come un gomitolo che si srotola e gira e rigira.
Come una palla di quelle con gli spicchi colorati. Ti passa davanti e tu vedi solo un colore.
Io non lo so di che colore sei tu. Sono giunta al punto di non ritorno. Te l'avevo data la seconda possibilità, la terza non fa parte del pacchetto. Che poi di pacchi me ne hai tirati più tu di me.
Con la scusa della paura dell'acqua e dei temporali e delle trombe d'aria e sai mi sono rotta il cazzo delle tue paure e delle malattie che ti fai venire e delle scuse che non hai. Perciò fumati i tuoi due pacchetti di sigarette ché tanto non ce la farai mai a smettere. Che poi se una ha paura delle malattie va in controsenso che si fumi sessanta sigarette al giorno. eh. Fumatele quando esci dalla messa delle sei e mezza del sabato. Fumatele tutte su una volta. E' inutile che prendi il pacchetto da dieci. Finiscila di prenderti per il culo da sola. A me sul culo mi ci stai.
Che poi in verità  finisce che divento cattiva. Hai detto che sono cattiva. Tanto lo dicono tutti che sono cattiva e ben venga che son cattiva davvero. Sono nata in mezzo ad una tormenta di neve e non dovevo nemmeno nascere quel giorno. La zia L. dice che è per quello che son nata cattiva. La zia W. diceva che ero buona ma adesso è morta e son morti quasi tutti quelli che dicevano che ero buona. Così resto cattiva.
Ah. C'è poi anche il discorso del limoncello e dei glenn grant e i prosecchi che ti butti in corpo. Che poi non mi sta proprio tanto bene. Per niente bene. Ma non te l'ho mai detto. Da cattiva, ovvio.
E c'è anche uinforlaif e il grattaevinci.
Di tutto questo con tuo fratello non ho nemmeno mai parlato. Ma guarda.
Questo è bene che tu lo sappia. Si è sempre parlato della tua professione. Della fine della tua professione. Della tua ossessione per la professione. Si diceva che non te ne fai una ragione. Lui diceva. Io, più che altro ascoltavo. Mi limitavo a preoccuparmi del fatto che tu potessi sentirti sola.
Non fallita. Sui tuoi fallimenti ci disquisiva lui. Il fratellone tuo. Quello che poi m'ha dato della cretina. E della sciagurata.
Che poi io questa parola nemmeno so cosa vuol dire. Sciagurata. Beh. Fa tanto Eduardo. Della tragedia napoletana. Insomma roba da gente dello spettacolo.
Che poi io vi vedrei bene al circo, senza offesa.
Lui al pianoforte, col frac e il naso rosso. Tu in tutù, che danzi la fine.
La mamma in platea batte le manine. Clap clap. Inchino. Il sipario si chiude.
Che poi non so nemmeno perchè sto qui a scrivere di te. Di voi. Ché la cosa che mi verrebbe meglio sarebbe quella di prenderti per le spalle e sbatterti su per un muro. Botte da orbi,  di quelle che ti ricorderesti in vita. A te e a quel mona di tuo fratello.
"Non c'è mai una seconda occasione per fare una prima impressione".
La terza te la puoi proprio scordare.

Post scriptum.
Quella foto, quella delle magistrali, quella in cui sei tutta scura – dalla testa ai piedi – sì, insomma la foto di cui parlavo prima, beh nemmeno la trovo più.
Non è più che un segno questo?