sabato, maggio 28, 2011

NienteDiPersonale






Mi disse: mi sposo.
Me lo disse al telefono, tra una cosa e l'altra.
Come se niente fosse. Me lo disse dopo che io avevo fatto una battuta. Non rammento nemmeno a proposito di che.
Parlando appunto di matrimonio. Intendo la battuta.
Poi passò ai dettagli.
Parlò del posto, dei posti. Qui piuttosto di là. Ma anche no.
E parlò di una festa, con tanti amici. Magari su, in montagna.
Mi disse che gli sarebbe piaciuta una cosa con gli amici.
Una di quelle cose che poi si ricordano col passare degli anni.
È stato lì che ho pensato: fa che sia una cosa bella, quella che tu desideri fortemente, la più bella tra le cose che vorresti fare perchè poi se non la fai, se per caso dovessi decidere, se ti dovessero convincere a non farla, te lo dico da subito, che ti pentiresti per sempre. E te lo dico perchè lo so.
Intanto che pensavo, parlava e parlava. Sembrava un fiume in piena. Era come se gli avessi dato il via, e lui era partito in terza.
Poi cominciò a parlarmi del perchè volesse farlo.
Mi disse che se si fosse schiantato su un albero o fosse uscito in una curva, lei non avrebbe avuto nessuna speranza di essere avvisata né le avrebbero rilasciato alcuna informazione in caso di ricovero ospedaliero. A lei.
Lei che ancora non riesco a chiamare col suo nome perchè ho sulla punta della mia dannata lingua il nome della sua ex-ex. Cioè ex alla seconda. Cioè partendo dalla prima dovrebbe essere la quarta... ma sono già andata in confusione. Il fatto è che me le presenta e poi io mi ci affeziono. A parte qualcuna che proprio mi è stata sul culo.
E insomma ora è qui che mi dice che se la vuole sposare. Lei.
Lei che quando lui s'è beccato quella strana infezione ed è stato per dieci giorni con la febbre altissima, parlava al plurale, quando mi faceva la telecronaca della malattia, al telefono: questa mattina AVEVAMO 37,4 poi ABBIAMO preso la tachipirina così a pranzo ABBIAMO mangiato una minestrina, ABBIAMO preso le vitamine, ABBIAMO bevuto la spremuta, ABBIAMO dormito due orette eccetera eccetera.
Non che ci siano maggiori possibilità che si schianti lui piuttosto di lei. Se malauguratamente si schiantasse lei, comunque lui - ora come ora - non risulterebbe tra i familiari, quindi avrebbe le stesse possibilità che avrebbe lei, se si schiantasse lui, di essere lasciato all'oscuro fuori da una sala operatoria.
Idem se si trattasse d'infarto o morte improvvisa, ovviamente.
Mi parlò della situazione delle coppie di fatto.
Del fatto che di fatto non sono considerate coppie.
Mi parlò per un lasso di tempo con quel suo fare prolisso e – a tratti – noioso, a volte monotonale. Io seduta sulla poltroncina di vimini col cellulare in mano ad una mano appiccisosa di sudore afoso. Ma però mi sembrava d'averlo davanti e non so cosa avrei dato per avere in bocca una sigaretta amara da succhiare. In quel lasso di tempo ne avrei volentieri fumate tre o quattro, di sigarette ma, siccome ho smesso da un fottuto anno e mezzo, non mi resta che il ricordo ed il desiderio.
Un vaneggio. Miraggio. Il ricordo di tutte quelle sigarette che ci siamo fumati insieme nel corso di tutti questi anni. Ah.
Così gli dissi che lo faceva anche perchè l'amava. E mentre lo dicevo gli parlai sopra cosicché ho dovuto ripeterglielo. Insomma lo dissi due volte, in successione quasi istantanea mentre pensavo: ma quanto cazzo parli?
Fino ad ora mi aveva spiegato i motivi concreti percui valeva la pena di sposarsi: cose tecniche, per intenderci.
Poi scoppiò la bomba.
Meno male che ero seduta, poi.
E come prima, mi parlò sopra perché la seconda volta che dissi quella frase, quella dell'amore, lui si espresse esattamente con queste parole: “ah certo, se fosse per me, avrei preso la M. e me la sarei sposata seduta stante... guarda, proprio senza fare niente... così al momento”...
Mi si è annebbiata la vista e un groppo m'ha stretto la gola.
Bum. Commozione?
Nella mia testa l'ho visto vestito da principe che arrivava al galoppo sul suo cavallo bianco. Lei stava lì ad aspettarlo, sorridendogli, nel suo abito lungo da principessa medievale. Rallentando un poco la corsa, chinandosi leggermente da un lato e cingendole il braccio intorno alla vita, la prendeva issandola sul cavallo, ponendola di fianco davanti a lui, e con l'altra mano teneva le redini e guidava il destriero.
C'era il vento che scomponeva loro i capelli e un cielo azzurro di quelli oceanici. Quelli con tante nuvole bianche che sembrano zucchero filato e si muovono veloci.
Ho sentito anche i violini, le viole, le arpe, quelle musiche da roba trita e bollita. Poi, sempre guardandosi (lei sorrideva ancora, più che altro lei gli sorride sempre), li ho visti uscire di scena e raggiungere l'arcobaleno. Dissolvenza.
Realtà. Bum: occhi pieni di lacrime. Tutta sudata.
Tant'è che lui continuava a parlare. Io singhiozzavo col cellulare in mano, seduta su quella poltroncina di vimini, e lui parlava e parlava. Non credo nemmeno si sia accorto di nulla.
Più tardi, in bagno, seduta al cesso a pisciare, mi son presa la testa tra le mani e ho ripreso a piangere.
Pensavo al matrimonio, al fatto dello schiantarsi.
Ad un infarto piuttosto che un'emorragia cerebrale.
Al fatto delle coppie di fatto.
Più che altro ora mi stavo piangendo addosso. Letteralmente. Asciugandomi le lacrime che cadevano sulle cosce, pensavo alla persona da chiamare in caso d'emergenza. ICE, si deve scrivere sulla rubrica del telefonino, accanto al nome di chi si vuole sia contattato. In Case of Emergency. Fa tanto America ma la prima volta che lo lessi era su una bacheca della segreteria di un campo di rugby a Favaro Veneto.
Poi pensavo a te.
Pensavo che ho decine di numeri sulla mia rubrica telefonica.
Pensavo che ho scritto quell'ICE accanto a dieci di essi.
Pensavo che ICE accanto al tuo nome non l'ho mai messo.
Non mi viene neppure da metterlo.
E non è perché son più le volte che non rispondi di quelle che rispondi, quando ti telefono.
Già. Il lavoro nobilita l'uomo e non gli permette di rispondere al cellulare. Nemmeno in caso d'emergenza.
Pensavo all'emergenza e più pensavo all'emergenza e più pensavo a te e più mi veniva da piangere.
Poi ripensavo a quel fiume di parole sul matrimonio, su di lei, sui progetti ed i sogni che lui mi aveva vomitato addosso poco fa, e a quando mi aveva detto: guarda, se fosse per me la prendo e la porto via e me la sposo subito.
E in quell'attimo io ho pensato che le uniche parole che ti sento ripetere da mesi quando ti chiedo “portami via da qua”, sono: adesso vediamo.
Adesso vediamo. Adesso vediamo. Adesso vediamo.
Cosa vuol dire poi?
Adesso. Quando? Adesso, dunque subito.
Vediamo. Chi? Cosa? Cosa dobbiamo vedere e chi deve vedere? Ci sono cose e parole che non mi piacciono: adesso vediamo sono parole che non mi piacciono.
Adesso vediamo, adesso vediamo, adesso vediamo.
Che poi è l'equivalente di quell'aspetta un attimo che mi dice mio figlio quando gli chiedo di fare qualcosa.
Aspetta un attimo: non ti sei nemmeno accorto che avevo pianto anche se avevo due occhi rossi che sembravo un bue né mi hai chiesto perchè non avevo più voglia di mangiare.
Aspetta un attimo: ogni volta che mi telefona lui mi chiede di andare là, di trovare un lavoro e vivere accanto, l'uno all'altra. Di pensarci.  Osare, rischiare. Stravolgere la vita. Ricominciare da zero. Voltare pagina. Girare la boa. A volte è un attimo e la vita ti cambia. tu mi rispondi: adesso vediamo,  e pedali.
Aspetta un attimo: io sono ferma. A me non mi cambia mai niente. È così che mi passano i giorni, i mesi, gli anni.
Nessun progetto, nessuna vacanza, no vie di fuga, niente parvenze di sogni costruiti come mattonelle di lego seduti a tavolino o abbracciati in un divano. Quanto tempo è che quando ti svegli la mattina non allunghi un braccio per toccarmi, stringermi o abbracciarmi? D'altra parte la tua risposta è sempre pronta: io sono pigra e mi piace dormire, tu sei mattutino e quando apri gli occhi devi vivere la luce.
Ebbene perchè non sfrutti la tua iperattività e l'ipertensione in modo dignitoso ed esci a comprarmi un croissant, un cioccolatino, una t-shirt, una cazzo di foca di pelouche? Qualcosa che assomigli ad un regalo. Perchè le coppie che si amano, a volte, più spesso, amano anche scambiarsi dei regali.
Aspetta un attimo.
Paura o delusione? Mi chiedi.
Sai che ti dico? Adesso vediamo.

domenica, maggio 22, 2011

L'UomoAddettoAll'Insetto





se alle 13 e 30 tornate a casa e vi mettere a fare su una veloce pasta perchè avete fame e non siete riusciti a mettere in bocca nulla in cinque ore di lavoro, vostro figlio si alza di scatto dal divano e viene in cucina trafelato comunicandovi di essersi trovato una lucertola sulla spalla caduta dall'alto, voi cosa fate?
di solito mi manca l'uomo addetto all'insetto ma ora mi trovo in un baratro perchè mi rendo conto che mi manca anche un uomo addetto alle lucertole che piovono dal soffitto.
detto fatto. io e mio figlio cominciamo con gesti precisi e veloci a denudare il divano ad angolo dai suoi 13 cuscini formando una piramide sul pavimento. orrore. e se la lucertola andasse a ripararsi sotto la piramide?
spostiamo i cuscini sul tavolo. della lucertola nemmeno l'ombra. dubbio. guardo mio figlio.
hai bevuto molto ieri sera? delirium tremens.
occhiata tremenda. mamma, concentriamoci.
botte sul divano coi piedi. madonna che grande 'sto divano. che mi sono pensata quando l'ho comprato?
la lucertola fa capolino dall'angolo. una madre sospira di sollievo. mio figlio non mi racconta bugie e non è affetto da alcoolismo. ma come si prenderà una lucertola?
idea. mio figlio torna dalla cucina con una pentola e un coperchio. la lucertola pedona. dietro sulla spalliera. terrore. della lucertola. mio figlio si avvicina. poi retrocede. ho paura. dammi, dice la madre-coraggio e prende in mano la pentola. mi avvicino e poi retrocedo. ho paura. dramma. convivenza con una lucertola fino a che punto?
ebbene sì. facciamo fuoriuscire la forza che c'è in noi. bella squadra. la pentola viene posizionata sopra la lucertola aggrappata con le sue belle zampette a ventosa alla spalliera del divano e la copertina cartonata di un catalogo dimostrante l'arte di un carissimo amico - ahia si arrabbierà da morire - scivola tra la spalliera e la pentola imprigionando la lucertola.
la pentola viene raddrizzata e il suo coperchio si frappone al cartoncino - soltanto allora capisco che è la copertina del catalogo. ahia.
la lucertola è prigioniera dentro la pentola chiusa che viene posizionata sulla tavola in salotto per tutta la durata del nostro pranzo.
la pasta è molto scotta e il sugo fa schifo. qui l'arte culinaria non è mai stata al primo posto. tutto molto veloce.
tutti si aspettano sempre qualcosa. non so cosa c'entra ma io lo faccio sempre di portarmi via da bere eppoi di riportare la bottiglia intonsa a casa. paura di morire di sete. io non bevo mai.
non votare ti fottono, c'era scritto sul muro. il nostro sindaco ci ha tolto la linea 3 così i cittadini veneziani continueranno a viaggiare nei carri bestiame annusando le ascelle del turismo mondiale.
io odio la puzza di sudore. dirò al sindaco di accompagnare al ticket del turista un buon deodorante. oppure insetticida.
ho necessità dell'uomo addetto all'insetto.
la lucertola è dentro la pentola.


CaseDentroIlMare


















Sono nata in un'isola.
Non sento le case.
Sono nata in un'isola.
Non sento le case dentro. Ho abitato case che non m'appartengono. Ho dormito su letti che non sono i miei. Ho tante cose e non ho niente.
Posso ricominciare dovunque. Dico. Lo penso. Ma non è vero.
Sono nata in un'isola. Da genitori isolani. Le mie nonne isolane.
Sono nata in un'isola e non ho confini. Le case mi scivolano via. Mi ci ritrovo dentro, le abito e non le riconosco. Non le sento mie. Non ho nessuna casa che sia mai stata mia. Non abito da nessuna parte. Sono nata in un'isola. Non è colpa mia. Se non voglio andarmene.
Sono nata in un'isola ed ho paura del mare. Non mi piace l'acqua e d'inverno mi lavo a pezzi. Perchè il freddo mi entra dentro. In queste case che non sono mai state mie.
Sono nata in un'isola e mi chiamo Marina. Io che odio il mare e le sue creature. Io che non mangio il pesce perchè mi sembra che tutti i pesci abbiano lo stesso sapore. Un sapore di niente.
Come le case che ho abitato.
Perchè non volevo parlare di pesci. E nemmeno di isole, volevo dire. Desideravo esprimere i miei pensieri. Come un espiare di colpe. Frammenti di rimpianti. Di case non abitate. Non trovate.
Io ce l'ho la mia casa dei sogni.
Ce l'ho da quando ero bambina.
È una casa a due piani. Di quelle con il patio davanti. Rivestita di assi di legno bianco. Non grande, sia chiaro. Niente di esoso.
Qualcosa d'americano, per essere sinceri. Di quelle che si vedono nei film, ovvio. Non sono mai stata in America.
Una di quelle case del profondo sud: Alabama, Luisiana, Georgia.
Il buio oltre la siepe, mi viene in mente, ora.
Una casa al centro del mondo. Sprofondata nella terra. Circondata da chilometri di terra lontana dal mare.
Il mare non fa parte dei miei sogni. L'acqua spegne il fuoco.
Io voglio una casa con il caminetto.
Voglio vedere la fiamma crepitare e voglio sentire il caldo salire.
Voglio poter girare per casa a piedi nudi e sentire il calore del fuoco che mi sale dai piedi fino a raggiungere il cuore.
Voglio scaldarmi il cuore. E i piedi.
Sono nata in un'isola e la mia casa ideale non ce l'ha il mare. Nemmeno a pochi chilometri. Non mi sfiora il pensiero. Non è un desiderio.
Mentre invece voglio la scala. Voglio una calda e vivibile scala interna che metta in comunicazione i due piani della piccola casa.
E la voglio di legno.
Voglio sentire scricchiolare i gradini quando si sale e si scende.
Voglio il caldo del legno sotto le piante dei piedi.
Sono nata in un'isola e ho sempre avuto i piedi freddi. Anche d'estate. Quando piovono i piccioni cotti. E il bagno nel mare non lo volevo fare perchè c'erano i cugini maschi che mi tiravano sotto con la testa e l'acqua mi entrava nel naso. Si poteva morire. Morire sott'acqua con le orecchie piene d'acqua e nell'acqua quel suono del niente.
Come le case che ho abitato.
Sono nata in una vecchia casa veneziana, coi soffitti di quattro metri pieni di stucchi, in riva ad un canale.
Di quella casa ricordo soltanto il canale, ed il ponte dove un giovane dilettante padre filmava le corse della sua bambina in una pellicola kodak super otto. Pellicole invertibili a colori tarate per due diverse temperature di colore della luce: sul ponte luce diurna tipo G e dentro in casa, seduta in una poltrona coi braccioli mentre stringo l'orso Cucciolo e la bambola Teresa in un unico abbraccio, luce artificiale di tipo A.
E se non fosse per tutti quei filmini, in realtà, non ricorderei niente.
Poi nacque mio fratello e ci trasferimmo nell'altra isola.
E dal salotto si vedeva un pezzetto di laguna.
Che non era il mare ma sempre d'acqua si trattava. E quell'acqua si è colorata ad ogni cambio di stagione, di clima, di luce. Nera di notte, cristallina d'inverno. Grigia con la neve. Cobalto con il temporale. Verde con la piaggia. Bianca con le nebbie. Rossa nei tramonti.
E' da quel posto che ho visto i più bei tramonti della mia vita.
Ed è forse in quel posto che sono rimasti i ricordi più belli della mia vita. I rimpianti. I sentimenti. Togliamo pure il forse.
Sono nata su un'isola e loro, loro due, su quell'isola sono rimasti.
Niente era previsto. Destino beffardo. Puttana la vita. Grande senso d'impotenza, solitudine. Rabbia e desolazione. Fretta di chiudere. Tutte le cose chiuse in scatoloni. Un gran pezzo di vita.
In realtà tutto è rimasto là e la casa è stata smantellata con una fretta che nessuno avrebbe voluto possedere. Siamo stati posseduti. Loro sono rimasti là e la casa è come se l'avessimo sciolta nell'acido.
E poi ci son state le altre due case. L'altro pezzo di vita.
Case grandi dove ho marchiato il territorio deponendo rispettivamente una figlia, su una, ed un figlio, sull'altra.
Case enormi dove i ricordi rimbalzano ed hai come quella sensazione di eco.
Case che hanno visto la mia vita espandersi in rumori ovattati come quando i cugini maschi mi ficcavano la testa sotto acqua e l'unica cosa che sentivano le mie orecchie era il suono del niente.
Come tutte queste case che ho abitato.
Ed ora c'è un altro episodio di questa mia vita a telefilm.
L'ultimo?
C'è quella casa. La più piccola mai abitata.
L'unica da dove si vede un pezzetto di mare.
Da dove si assiste alla nascita di albe strazianti.
Non ho mai amato le albe.
Sono nata in un'isola ed ho una fottuta paura del mare.
Rumore incessante e imponente. Massa in costante movimento.
Sto ferma da anni. Come una roccia. Temo il cambiamento. Sto appollaiata e aspetto. Il cambiamento. E odio aspettare.
Ho tante cose e non ho niente. Non sento le case dentro.
Non la sento, dovrei?
Come le altre non l'ho trovata. Me la sono trovata davanti.
Ci sono entrata dentro io, non lei.
Ci sono freddi terrazzi per terra. Non ci sono scale di legno. Sento i vicini che parlano, pisciano e fanno all'amore. Non c'è il caminetto. La caldaia è in cucina e quando s'accende sembra un treno a vapore. Non c'è una veranda ma dalla terrazza si vede un pezzetto di mare. Il fatto che si veda è una gran cosa ma potresti chiudere gli occhi e sapresti comunque che ce l'hai davanti. Sia che soffi il vento del nord che fa piegare i muri sia che arrivi lo scirocco che te lo fa arrivare sulle punte dei piedi.
Sono nata in un'isola.
Circondata dal mare e voglio una casa che mi entri dentro.
Posso dunque entrare?





sabato, maggio 07, 2011

Emilio e Lucia




















A questo punto un libro potrebbe anche finire.
Ma però.
La scena era davvero ai limiti tra l'imbarazzante ed il ridicolo. Io avevo la sporta a tracolla, quella che di solito uso per la spesa. Quelle borsette che si piegano e diventano minuscole e stanno raccolte dentro il loro contenitore chiuso da una minuscola cerniera.
Dentro avevo l'urna con le ceneri del papà, mentre la zia L. teneva nella mano destra la sua sportina di tela bianca con una scritta pubblicitaria che adesso non ricordo più.
E là c'era la mamma, nell'altra urna.
E pesavano quelle due cose, cacchio se pesavano. Poi sul ponte c'erano dei turisti, ed io ho protetto col braccio il mio fardello; mia zia arrancava su per i gradini cercando di scansare la gente. E intanto brontolava. Mi veniva da ridere. Mi veniva da ridere pensando a cosa le stavo proponendo. Inverosimile. Robe da non credere.
La mia zia ottantunenne che portava nella borsa della spesa sua sorella. Come un litro di latte e poco più.
Povera Lucia, povera Lucia. Intanto diceva.
“Essere sballottata anche da morta, non bastava da viva”.
Così mi è venuta in mente quella volta. Uno dei tanti ricoveri di quel bastardo novantotto.
Dovendo fare un esame più approfondito, la mamma doveva spostarsi di reparto e così venne a prenderla il portantino con la sedia. Ma c'era un piccolo problema: erano in due a dover fare quell'esame, di pazienti. E non c'erano altre sedie.
Due scriccioli di donne consumate dal cancro. Due belle anziane signore con le teste calve ma ancora piene di forze, s'intende (o forse lo volevo io); e con un grande senso dell'ironia (quello era evidente, per la miseria).
Così accettarono di usare la stessa sedia, ponendosi una davanti all'altra. Cioè: l'altra signora seduta con la schiena appoggiata all'apposito sostegno e mia madre tra le gambe larghe della medesima signora che con le braccia la cingeva in un abbraccio simpatico, paurosa che la mamma scivolasse in avanti... ma non era il davanti il problema; solo che questo lo capimmo dopo.
In più pioveva. Pioveva molto.
Quel giorno chi vide quell'improbabile scena non potette esimersi dal sorridere: il portantino sotto un diluvio torrenziale, chiuso nella sua cerata gialla, arrancava trascinando una sedia con due rotelle e due ilari minuscole signore in vestaglia che se la ridevano ad ogni curva.
Io con l'ombrello, correvo loro appresso, cercando di ripararle. Bagnata come un pulcino.
Il punto era che non appena il portantino portava la sedia ad una tale angolazione, le due anziane signore si sbilanciavano all'indietro cosicché mia madre, che stava sul davanti, inesorabilmente schiacciava la signora dietro che inevitabilmente veniva spinta verso lo schienale della portantina con poche possibilità di allargare la cassa toracica in tanti bei respiri.
E giù a ridere.
Non ricordo di aver visto mia madre sballottata più di quel giorno.
Ma ricordo bene quanto tutti noi (portantino compreso) abbiamo riso, e per quanto tempo (quanto ancora visse mia madre?) ricordammo la scena.
Perciò, là sul ponte vicino casa, mia zia mi vide sorridere e forse non capì ma sono sicura che mia madre mi fu complice e sorrise. Anche di più.
Rideva poco la mamma, ma quando lo faceva era una risata cristallina e trascinante, magari infarcita con qualche parolaccia detta in dialetto.
Mi tenni stretta il papà tra le braccia e sentii dentro che tutto stava andando bene.
Portandomeli a casa, avevo fatto la scelta giusta.